Ogni stato nazionale è fondato su miti, lo stesso vale per la Svizzera. Ciò non è né semplicemente un bene o un male, ma una semplice constatazione storica. Il mito fondatore del moderno nazionalismo risiede nell’idea che popolo, stato, e territorio formano una sacra unità, la quale si è dovuta formare nel corso della storia. Gli studi più recenti mostrano però un’altra versione dei fatti: gli stati nazionali moderni non sono il compimento di una provvidenza divina, bensì il prodotto di diversi interessi, lotte, eventi, e coincidenze. Le Nazioni vengono create. Per un processo moderno di costruzione di una nazione vennero forgiate attivamente identità estrapolate da idee, immagini, simboli e narrazioni. Le idee di cosa costituisca una nazione si riflettono nelle menti e nelle azioni delle persone, nella vita quotidiana, nelle istituzioni statali e nelle leggi - e viceversa. L’immagine che una nazione ha di sé stessa ha un impatto anche sull’accesso consentito alla popolazione a una partecipazione politica, sociale, e culturale, per esempio sotto forma di elezioni, procedure di naturalizzazione, sistemi sociali, scuole, letteratura e musei nazionali.
Gli stati nazionali democratici si fondano sul principio che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti. La questione centrale è: chi è riconosciuto come un cittadino con i pieni diritti e chi no? Quali gruppi della popolazione appartengono al “popolo” e quali no? La storia dimostra che le nazioni non si sono isolate soltanto da altre nazioni al fine di motivare la propria identità, ma anche contro gruppi al loro interno. Il nazionalismo moderno ha sviluppato processi emancipatori, d’esclusione o addirittura di violenza; e ciò anche in Svizzera. In questo modo l’invenzione dello stato nazionale ha comportato sia l’integrazione di diverse confessioni, culture e gruppi linguistici sia l’esclusione: a partire dal 1848, poveri, nomadi, donne, ebrei, orfani, rom e sinti, non vennero più considerati legittimi cittadini, e di conseguenza discriminati. La storia della Svizzera dimostra però anche che le idee su chi abbia diritto di partecipazione e il significato stesso di partecipazione possono cambiare sull’onda di lotte sociali e trattative. Movimenti sociali, organizzazioni politiche, esperti scientifici, attori culturali, iniziative ecclesiastiche e sindacati hanno potuto dare, anche grazie a pressioni internazionali, importanti impulsi di democratizzazione della democrazia stessa in Svizzera. Oggi, però, in Svizzera regna un allarmante deficit di democrazia. Dal dopoguerra in poi, nonostante la popolazione della Svizzera sia cambiata in maniera significativa a causa di migrazione e globalizzazione, le istituzioni elvetiche non si sono adattate ai mutamenti in corso. Il 25% degli abitanti del paese non hanno il diritto di cittadinanza a causa della loro provenienza, e pur possedendo il passaporto rossocrociato è stato dimostrato che esiste una discriminazione basata sulla provenienza, sull’aspetto, sul nome, sulla lingua e sulla religione. La discrepanza che esiste tra l’immagine di chi appartiene al popolo svizzero e i veri abitanti del Paese, rappresenta una dolorosa realtà. Quanti abitanti senza diritto di cittadinanza deve avere un paese per non essere più considerato una democrazia? La domanda che oggi ci si pone è la seguente: come si devono cambiare l’immagine di sé e le istituzioni svizzere per far giustizia alla complessa realtà?
Da diversi anni in Svizzera, due storie della nazione sono in conflitto tra loro: quella conservatrice, che considera il 1291 come l’anno della fondazione del paese, e quella liberale, che ha scelto il 1848 come anno d’origine. La prima si fonda sul presupposto che la cultura del popolo resta invariata. Essa è regolata, neutrale, veritiera, stabile, bianca, cristiana, e molto maschile. La seconda si considera liberale e umanitaria, s’impegna a livello internazionale, per la mobilità e per i diritti umani. 1291 e 1848 si presentano così come due poli opposti in una lotta culturale elvetica. In questo modo le due storie presentano le due facce della stessa medaglia. Entrambe hanno in comune una stessa grande lacuna: la storia migratoria e coloniale della Svizzera. È quindi imperativo confrontarsi con il ruolo storico della Svizzera in un contesto globale per poter comprendere, e quindi democraticamente influenzare, la nuova realtà sociale da esso nata.
Seppur non faccia (ancora) parte della coscienza collettiva, alcuni protagonisti svizzeri furono seriamente coinvolti nel colonialismo europeo; anche senza colonie elvetiche. Essi fornirono capitali, s’ingaggiarono come trafficanti, missionari, coloni e soldati. Già nel XVIII secolo, città quali Berna e Neuchâtel realizzavano guadagni con il mercato transatlantico degli schiavi. Le industrie tessili locali del XIX e XX secolo, e di conseguenza anche le macchine e le industrie chimiche, erano pienamente integrate nel commercio di cotone del capitalismo globale, il quale era fondato sullo sfruttamento sistematico di materie prime e di schiavi. Sembra sintomatico che recentemente gli storici abbiano potuto dimostrare che l’eredità di Alfred Escher, l’eroe liberale della moderna Svizzera industriale, si fondava sul lavoro di schiavi nei Caraibi. I legami economici tra la Svizzera e il resto del mondo hanno continuato a estendersi anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel commercio di materie prime ma anche nel cosiddetto “aiuto allo sviluppo”. Nel contesto della guerra fredda e della de-colonializzazione, grazie al suo ruolo di operatore di mercato internazionale risalente al periodo coloniale, la Svizzera poté nuovamente generare un profitto economico trattando con lo stato dell’Apartheid in Sud Africa. In questo modo poté neutralizzare il proprio “senso di colpa” coloniale.
Furono i legami coloniali che a partire dal XIX secolo contribuirono non solo al rafforzamento economico, ma anche il nazionalismo “etnico” svizzero. Gli svizzeri all’estero - avventurieri, commercianti e ricercatori nelle colonie - non portarono in Svizzera solo ricchezza, souvenir, e opere d’arte, ma anche rigide nozioni di segregazione razziale e di fierezza nazionale. La Svizzera venne promossa a centro internazionale di ricerca sulle razze. Ma i cosiddetti “zoo umani”, nei quali già dal XIX secolo uomini e donne provenienti dai territori colonizzati venivano esposti come “selvaggi esotici” in tutta la Svizzera, davano pure a centinaia di migliaia di visitatori l’opportunità di identificarsi come uomo bianco, civilizzato e superiore.
Ciononostante, o grazie proprio ad un simile contesto globale, fino alla fine del XIX secolo la Svizzera fu relativamente liberale per quanto riguarda l’immigrazione. Essa rappresentava un fattore importante per i confederati ed era parte integrante del modello politico. Nel 1893, con la prima iniziativa popolare, la Svizzera vietò la macellazione rituale degli animali, dichiarandosi così chiaramente antisemita nei confronti degli immigranti ebrei provenienti dall’Europa dell’Est. Intorno al 1900 s’iniziò a parlare di “inforestierimento”, un’invenzione elvetica. In un primo momento, non fu richiesta l’espulsione, ma la naturalizzazione forzata. Diametralmente opposta all’idea dominante di oggi, si pensava che la naturalizzazione dovesse precedere l’assimilazione per accelerare quest’ultima. In breve tempo si fece largo comunque il timore di perdere “le caratteristiche culturali” e l’eredità del “popolo svizzero”. Come in altri paesi europei del tempo, aumentò sempre di più l’idea che fosse possibile definirsi mediante una distinzione dagli “altri”. Nel 1911 il dipartimento federale di giustizia e polizia creò un protocollo centralizzato per la registrazione dei nomadi, i cui dati vennero utilizzati durante il genocidio ai tempi del Nazional-socialismo. Nel 1917 fu creata la polizia federale degli stranieri, attiva fino al dopoguerra sorvegliando migliaia di persone residenti in Svizzera. Nel 1931 venne adottata la restrittiva legge LDDS, che fino al nuovo secolo ha fatto dipendere il rilascio dei permessi di soggiorno e d’insediamento in Svizzera a clausole etniche ed economiche. Contemporaneamente a questa politica d’emarginazione, sulla scia di un’intesa tra forze liberali, conservatrici e socialdemocratiche, fu creata la cosiddetta “difesa spirituale della Patria”, che vedeva la Svizzera “campestre” come l’unione di romanticismo alpino, crescita industriale e benessere sociale.
Dopo la seconda guerra mondiale, nell’era dei cosiddetti “lavoratori stranieri”, continuava la repulsione degli stranieri. Da una parte si importavano centinaia di migliaia di “forze-lavoro straniere” nel Paese, che per accelerare il boom economico venivano impiegate in fabbriche, aziende, alberghi, ristoranti, cantieri, e campi. Il sistema “a rotazione”, in accordo con il cosiddetto statuto stagionale, prevedeva però che a lavoro terminato il lavoratore straniero lasciasse al più presto la Svizzera. Molti lo fecero, molti altri restarono. Quando nel 1970 l’iniziativa “Schwarzenbach”, che prevedeva il rimpatrio di centinaia di migliaia di lavoratori stranieri e i loro figli, venne respinta di misura, la politica d’assimilazione della Confederazione doveva assicurarsi che la grande richiesta di manodopera straniera continuasse ad essere soddisfatta. Al tempo stesso, la paura per un’eccessiva presenza di stranieri era così grande che vennero inaspriti i criteri d’assimilazione e naturalizzazione.
Anche le persone in fuga non furono necessariamente accolte a braccia aperte dalla Svizzera umanitaria. Ai confini elvetici durante la seconda guerra mondiale i rifugiati ebrei si sentivano dire: “La barca è piena”. Durante la guerra fredda solo i profughi provenienti dai paesi comunisti, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia e dal Tibet si adattavano all’immagine liberale che la Svizzera dava di sé stessa. I rifugiati Cileni durante il Putsch di Pinochet ufficialmente non erano i benvenuti. Per tutti gli “stranieri” valeva lo stesso: “Coloro che vogliono stare devono assimilarsi”. Il che significava soprattutto che si dovevano subordinare e non farsi notare. Le ideologie razziste di controllo migratorio e il sistema patriarcale si davano una mano a vicenda: le donne svizzere, che notoriamente fino al 1971 non erano considerate come cittadine con pari diritti, ancora negli anni cinquanta perdevano la nazionalità se sposavano uno straniero. In cambio la manodopera ospite creò i presupposti strutturali affinché le lavoratrici svizzere potessero, o dovessero, scambiare il posto di lavoro con i fornelli nell’idilliaca famiglia borghese. In breve: In piena guerra fredda, il sistema della manodopera straniera permetteva alla Svizzera di reinventarsi come società orientata al consumo, composta da un ceto medio patriarcale ed etnicamente omogeneo.
Gli ultimi decenni hanno dimostrato che nonostante la migrazione internazionale e la globalizzazione lo stato nazionale non sparisce dal tavolo ma si trasforma. Esso continua a creare un quadro di riferimento per le rivendicazioni di diritti e di partecipazione. Ma non è ancora chiaro dove porti questo “viaggio”. Stato nazionale non significa automaticamente stato di diritto o di democrazia. Le donne svizzere e gli immigranti lo sanno: la democrazia deve essere costantemente conquistata e difesa. A partire degli anni settanta, sia nelle città che a livello comunale, i movimenti sociali e le iniziative della società civile nelle quali collaboravano attori con e senza passato migratorio, ottennero in nome dell’integrazione diversi successi in materia d’inclusione della realtà migratoria. Nella vita di tutti i giorni, ovvero nei salotti, nelle aule delle scuole, nelle aziende, nelle strade, nei club, nei centri municipali e nelle associazioni, pulsa da tempo una #NuovaSvizzera, per la quale la differenza tra svizzero e straniero non più alcun senso. Eppure le conquiste in quanto a libertà e diritti possono andare di nuovo perse. Le votazioni popolari degli ultimi anni, la logica restrittiva dell’integrazione, così come l’occasione persa di procedere a un riesame dei diritti civili, dimostrano che i tempi dei “Fabbricasvizzeri” non sono superati.
Ciò che resta di questo breve resoconto storico è che, sia le idee conservatrici ancorate all’anno 1291, sia quelle liberali del 1848, occultano in gran parte la storia della migrazione e l’eredità coloniale della Svizzera, garantendo un futuro a razzismo e relazioni economiche dubbie. L’odierna cecità presente nel paesaggio politico e mediatico, che non vuole saperne di una zona d’ombra nel modello svizzero di successo, ha il suo prezzo: molte persone in Svizzera vengono riconosciute, semmai, come numeri statistici, come dimostrano le recenti votazioni sui minareti, sull’immigrazione di massa e sull’espulsione. Nelle narrazioni risalenti al “1291” e al “1848” molti abitanti della Svizzera restano estranei e senza voce propria. O rappresentano una minaccia, oppure sono obbligati ad arricchire la Svizzera: colpevole o vittima. Un’alternativa non esiste e non conta in Svizzera. Non è possibile tematizzare oggettivamente e pubblicamente la presenza di un razzismo strutturale. Eppure sarebbe necessario confrontarsi politicamente, culturalmente e scientificamente con questa realtà elvetica, e potersi così permettere un nuovo e sincero inizio.
In Svizzera negli ultimi anni hanno trovato voce molte nuove posizioni (post)migranti e postcoloniali, e sono nati nuovi progetti della società civile che infondono coraggio e dimostrano che non è possibile semplicemente tornare indietro nel tempo. Noi tutti abbiamo la responsabilità di come evolvono le cose. Con la proposta di dialogo denominata #NuovaSvizzera, INES s’immischia nel progetto sociale della Svizzera.
Si dice che La svizzera è una nazione nata da una volontà. Noi prendiamo questo mito nazionale alla lettera e vogliamo un comune nuovo inizio. Chi altro lo vuole?
Benedict R. Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, (London: Verso, 1991).
Regula Argast, Staatsbürgerschaft und Nation. Ausschliessung und Integration in der Schweiz, 1848-1933, (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 2007).
Jutta Aumüller, Assimilation. Kontroversen um ein migrationspolitisches Konzept, (Bielefeld: transcript, 2009).
Kijan Espahangizi und Halua Pinto de Magalhaes, 'Vergesst 1291 und 1848!', (Die ZEIT Schweiz, 1. Oktober 2014).
Rohit Jain und Shalini Randeria, ''Wider den Migrationskomplex – Perspektiven auf eine andere Schweiz'', in: Sozialalmanach 2015. Das Caritas-Jahrbuch zur sozialen Lage der Schweiz (Luzern: Caritas-Verlag, 2015), 199-210.
Patrick Kury, Über Fremde reden. Überfremdungsdiskurs und Ausgrenzung in der Schweiz 1900-1945, (Zürich: Chronos, 2003).
Patricia Purtschert und Harald Fischer-Tiné (Hg.), Colonial Switzerland. Rethinking Colonialism from the Margins, (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2015).
Jakob Tanner, Geschichte der Schweiz im 20. Jahrhundert, (München: Beck, 2015).
Andreas Zangger, Koloniale Schweiz. Ein Stück Globalgeschichte zwischen Europa und Südostasien, 1860–1930, (Bielefeld: Transcript Verlag, 2011).
mercoledì, 14. settembre 2022
Da Asmaa Dehbi, Vorstandsmitglied INES
Diversity ist das Wort der Stunde und scheint Garant für eine gerechte und plurale Gesellschaft zu sein. Mit dem Erhalt des Swiss Diversity Awards in der Kategorie «Religion» nimmt die Preisträgerin und INES-Vorstandsmitglied Asmaa Dehbi eine kurze Einordnung des Diversitätsbegriffs vor.
giovedì, 19. maggio 2022
Da Fanny de Weck & Tarek Naguib
Fanny de Weck und Tarek Naguib diskutieren über die Möglichkeiten und Grenzen des Rechts im Kampf um ein Ausländer-, Asyl- und Bürgerrecht frei von Willkür und dafür mehr Gerechtigkeit. Dabei sind sie sich nicht immer einig, was mit einem Rechtsstreit vor Gericht erreicht werden kann und was nicht: wo seine Potenziale und wo seine Grenzen liegen? Letztlich geht es ihnen aber beiden darum, dass die Grund- und Menschenrechte von Menschen mit Migrationsgeschichte und Rassismuserfahrung auch umgesetzt werden - und dafür muss gekämpft werden.
giovedì, 23. dicembre 2021
Da Institut Neue Schweiz
In diesem letzten Blog-Beitrag im 2021 geben wir einen Einblick in die vier Vernissagen zum jüngst erschienenen HANDBUCH NEUE SCHWEIZ. Uns war es wichtig, Themen aufzugreifen, die das Institut Neue Schweiz INES auch im kommenden Jahr beschäftigen werden: ein neues Bürgerrecht, eine vielstimmige Bürger:innenschaft, diskriminierungsfreie Teilhabe und eine Schweiz, die für ihr globales Handeln Verantwortung übernimmt.
venerdì, 10. settembre 2021
Da Anisha Imhasly
An einem Samstagnachmittag anfangs Juni fanden sich rund fünfzig Menschen in der Gessnerallee Zürich ein, um auf Einladung von INES unter dem Titel „Demokratie und Vielfalt in der Kultur – eine kulturpolitische Debatte“ zu erfahren, wie es um diese Vielfalt in der Kultur bestellt ist. Dies vor dem Hintergrund eines zentralen Anliegens seitens INES: Nämlich, dass sich die demografische Realität der Schweiz in seinen Institutionen – etwa in Politik und Verwaltung, Recht, Medien, Bildung und Kultur – viel stärker abbilden muss. Was hier folgt, ist eine subjektive Einordnung der Diskussionen bzw. einige weiterführende Gedanken zum Thema.
domenica, 30. maggio 2021
Da Institut Neue Schweiz und Demokratische Juristinnen und Juristen Zürich
In der Schweiz können seit je her Menschen, die hier geboren und aufgewachsen sind, ausgeschafft werden. Nur weil sie den Schweizer Pass nicht besitzen. Mit Annahme der Ausschaffungsinitiative und Verschärfungen im Bürgerrecht hat sich die Situation noch mehr verschlechtert. Rechtsanwalt Babak Fargahi, Filmhistorikerin Marcy Goldberg, Buket Bicer-Zimmermann, Schwester eines in die Türkei ausgeschafften Secondo, und Ständerat Paul Rechsteiner haben am 24. Mai 2021 im Rahmen der Veranstaltungsreihe Kosmopolitics über diese Missstände gesprochen. Hier kann das Video angesehen werden.
venerdì, 1. maggio 2020
Da INES Istituto Nuova Svizzera
La pandemia del coronavirus non è solo una crisi sanitaria, ma anche sociale ed economica. Molte persone sono minacciate dalla disoccupazione, dipenderanno dall'aiuto sociale e dovranno indebitarsi, anche in Svizzera. Ciò ha enormi conseguenze finanziarie e sociali, ma anche - cosa che molti non sanno - legali. Il criterio dell'"integrazione economica" svolge un ruolo decisivo nelle decisioni relative al permesso di residenza e alla naturalizzazione. La pandemia del coronavirus è quindi una minaccia esistenziale per molte persone. Ciò riguarda potenzialmente un quarto della popolazione residente che non ha la cittadinanza svizzera, ma che sostiene e contribuisce a costruire il paese quotidianamente.
venerdì, 30. giugno 2023
Da Tarek Naguib
Um den Herausforderungen der Zukunft zu begegnen, braucht es laut INES eine verfassungsrechtliche Regelung, welche ein Gesetz zur Bekämpfung von Diskriminierung und Förderung der Gleichstellung verlangt. In diesem Sinne entwickelte INES-Co-Geschäftsleiter und Jurist Tarek Naguib eine Vorlage für ein Rahmengesetz zur Bekämpfung jeder Form von Diskriminierung.
lunedì, 16. gennaio 2023
Da Institut Neue Schweiz
Eine Runde der Schweizer Think-Tanks und Foresight Organisationen ist 2022 zusammengekommen, um über die Herausforderungen für die Demokratie zu diskturieren. Das Treffen fand auf Einladung der Stiftung Mercator Schweiz und der Schweizerischen Gemeinnützigen Gesellschaft statt. Ziel war es, offensichtliche wie verborgene Entwicklungen zusammenzutragen sowie konkrete Massnahmen zur Stärkung und Entwicklung der Demokratie der Schweiz zu identifizieren.
mercoledì, 14. settembre 2022
Da Asmaa Dehbi, Vorstandsmitglied INES
Diversity ist das Wort der Stunde und scheint Garant für eine gerechte und plurale Gesellschaft zu sein. Mit dem Erhalt des Swiss Diversity Awards in der Kategorie «Religion» nimmt die Preisträgerin und INES-Vorstandsmitglied Asmaa Dehbi eine kurze Einordnung des Diversitätsbegriffs vor.
giovedì, 23. dicembre 2021
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Um den Herausforderungen der Zukunft zu begegnen, braucht es laut INES eine verfassungsrechtliche Regelung, welche ein Gesetz zur Bekämpfung von Diskriminierung und Förderung der Gleichstellung verlangt. In diesem Sinne entwickelte INES-Co-Geschäftsleiter und Jurist Tarek Naguib eine Vorlage für ein Rahmengesetz zur Bekämpfung jeder Form von Diskriminierung.
giovedì, 19. maggio 2022
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venerdì, 10. settembre 2021
Da Anisha Imhasly
An einem Samstagnachmittag anfangs Juni fanden sich rund fünfzig Menschen in der Gessnerallee Zürich ein, um auf Einladung von INES unter dem Titel „Demokratie und Vielfalt in der Kultur – eine kulturpolitische Debatte“ zu erfahren, wie es um diese Vielfalt in der Kultur bestellt ist. Dies vor dem Hintergrund eines zentralen Anliegens seitens INES: Nämlich, dass sich die demografische Realität der Schweiz in seinen Institutionen – etwa in Politik und Verwaltung, Recht, Medien, Bildung und Kultur – viel stärker abbilden muss. Was hier folgt, ist eine subjektive Einordnung der Diskussionen bzw. einige weiterführende Gedanken zum Thema.
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Da INES Istituto Nuova Svizzera
La pandemia del coronavirus non è solo una crisi sanitaria, ma anche sociale ed economica. Molte persone sono minacciate dalla disoccupazione, dipenderanno dall'aiuto sociale e dovranno indebitarsi, anche in Svizzera. Ciò ha enormi conseguenze finanziarie e sociali, ma anche - cosa che molti non sanno - legali. Il criterio dell'"integrazione economica" svolge un ruolo decisivo nelle decisioni relative al permesso di residenza e alla naturalizzazione. La pandemia del coronavirus è quindi una minaccia esistenziale per molte persone. Ciò riguarda potenzialmente un quarto della popolazione residente che non ha la cittadinanza svizzera, ma che sostiene e contribuisce a costruire il paese quotidianamente.
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